lunedì 25 maggio 2015

Il Novantatré e il Victor Hugo dell'ideale

Tendiamo a classificare la storia come un semplice involucro di eventi; ne tastiamo a fondo le dinamiche, osserviamo il muoversi centrifugo delle azioni. Ma dalla storia, come da qualsiasi altra espressione umana, è possibile trarre un insegnamento o, addirittura, uno slancio in potenza. E dico in potenza, giacché un atto di sangue nasconde futuri moti di spirito, questo nostro spirito che cede all'arte e dall'arte coglie il brivido. 


 La Vandea

Ultimo romanzo di Victor Hugo, il Novantatré conclude in maniera quantomai eroica l'esperienza dell'autore. Siamo in un anno decisivo, ormai la nuova Repubblica di Robespierre si è imposta oltre l'antica monarchia. Non manca, allo stesso tempo, un movimento - se così è lecito definirlo - in perfetto antagonismo con gli ideali del 1789. Terra del conflitto è la Vandea, luogo in cui s'annida il germe delle superstiti aristocrazie e obiettivo ultimo dei repubblicani.


 Tellmarch e i nuovi rivoluzionari

Mai come in questo romanzo, Hugo ci pare statuario. Egli è un monumento all'oggettività, ma, si badi, non un monumento fermo dinanzi al galoppo delle armate; il suo sguardo di pietra si scioglie al pianto dei deboli e s'infuria nella placida rivoluzione interiore degli emarginati. 
Prendiamo, ad esempio, la parte riservata al medicante Tellmarch:

«Capitemi bene; come raccapezzarci? Si va, si viene, i fatti si susseguono e io sono là, sotto la protezione delle stelle»
(…)
«Io sono un praticone, mi intendo di medicina, conosco le erbe, so utilizzare le piante medicinali e i contadini mi vedono osservare quello che per loro non conta, mi ritengono uno stregone. Io fantastico ed essi mi credono sapiente.»[1]

Il dialogo tenuto dal vagabondo è svolto con il marchese di Lantegnac, feroce monarchico. Ora, il personaggio di Tellmarch è quanto giudico l’apoteosi dell’utopia, una direzione politica quasi anarchica e, in virtù di tale innocenza, sublime. Sono incisi di questo tipo a determinare il carattere “epico” del narrato. Al di là della grandiosa attenzione che Hugo rivolge ai dettagli materiali, è il saper dar di taglio alle certezze che rende eterna l’opera.

La dottrina della Natura



Opera politica? Il Novantatré gioca la dottrina della natura. Osservando il comportamento della madre, altra figura chiave del libro, veniamo inondati da un bagliore. Nel cercare i suoi figli, ella distrugge persino l’ordine della notte e del giorno. Non esistono limiti e il sentimento ci pare essere l’unica arma. Questo è il vero mostro: il grido, la pulsione, l’energia del legame. La madre è un simbolo che racchiude nel suo grembo un inno alla completa universalità.

L'innocenza dei guerrieri

Ma Hugo tocca l’apice dell’eroismo nei tre fanciulli. Questi bambini, tenuti prigionieri dallo stesso Lantegnac, rappresentano il vero moto rivoluzionario. Saranno loro a distruggere il libro delle gesta di San Bartolomeo. Dilanieranno le carni dei santi e lo faranno con la prontezza dei guerrieri. Quale dogma o quale pregiudizio puoi imporre ad un cuore libero? La pura libertà delle creature, il sorriso che si tinge di impeto.

Ridurre la storia, la leggenda, la scienza, i miracoli veri o falsi, il latino della chiesa, le superstizioni, i fanatismi, i misteri, ridurre in pezzi tutto ciò; lacerare tutta la religione, dall’alto in basso, è lavoro per tre giganti e anche per tre bambini.[2]



Tornando al discorso d’apertura, queste righe dimostrano che la storia, una volta distrutta e ricostruita secondo la legge dell’immaginifico, può ancora addurre un insegnamento. Non stiamo parlando di morale, Dio me ne scampi, ma di un istinto, quasi l’anima umana fosse portata al bene. Almeno all'alba del suo ciclo.

Grazie, Victor Hugo

 Vorrei chiudere questa trattazione con un estratto che, a mio dire, non necessita di essere commentato. Sono pagine che ti portano alle lacrime senza l'amore di un corpo; pagine che tuonano nella realtà, in questo nostro fosco reale. Noi abbiamo la Grande Crisi, il romanzo ha i suoi eroi.

«L’utopia deve accettare il giogo della realtà, deve essere inquadrata nei fatti. Ogni idea astratta deve trasformarsi in un’idea concreta; ciò che ogni idea perde in bellezza, lo acquista in utilità; viene rimpicciolita, ma è più efficace. Bisogna soprattutto che il diritto si faccia legge e quando il diritto è divenuto legge si palesa assoluto. Per me, questo è ciò che io definisco il possibile.»
«Il possibile è molto più vasto.»
«Eccoti ancora una volta nell’utopia.»
«Il possibile è una creatura alata che volteggia eternamente su di noi.»
«Bisogna catturarla.»
«Sì, ma viva.»[3]



Silvia Tortiglione






[1] Victor Hugo; Il Novantatré ( Il Caimand) trad. di Oete Blatto
[2]  Victor Hugo; Il Novantatré (La carneficina di San Bartolomeo) trad. di Oete Blatto
 [3] Victor Hugo; Il Novantatré (Il Carcere) trad. di Oete Blatto

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