
La Vandea
Ultimo romanzo di Victor
Hugo, il Novantatré conclude in maniera quantomai eroica
l'esperienza dell'autore. Siamo in un anno decisivo, ormai la nuova Repubblica
di Robespierre si è imposta oltre l'antica monarchia. Non manca, allo stesso
tempo, un movimento - se così è lecito definirlo - in perfetto antagonismo con
gli ideali del 1789. Terra del conflitto è la Vandea, luogo in cui s'annida
il germe delle superstiti aristocrazie e obiettivo ultimo dei repubblicani.
Tellmarch e i nuovi rivoluzionari
Mai come in questo
romanzo, Hugo ci pare statuario. Egli è un monumento all'oggettività, ma, si
badi, non un monumento fermo dinanzi al galoppo delle armate; il suo sguardo di
pietra si scioglie al pianto dei deboli e s'infuria nella placida rivoluzione
interiore degli emarginati.
Prendiamo, ad
esempio, la parte riservata al medicante Tellmarch:
«Capitemi bene; come raccapezzarci? Si va, si viene, i fatti si susseguono e io sono là, sotto la protezione delle stelle»(…)«Io sono un praticone, mi intendo di medicina, conosco le erbe, so utilizzare le piante medicinali e i contadini mi vedono osservare quello che per loro non conta, mi ritengono uno stregone. Io fantastico ed essi mi credono sapiente.»[1]
Il dialogo tenuto
dal vagabondo è svolto con il marchese di Lantegnac, feroce monarchico. Ora, il
personaggio di Tellmarch è quanto giudico l’apoteosi dell’utopia, una
direzione politica quasi anarchica e, in virtù di tale innocenza, sublime. Sono
incisi di questo tipo a determinare il carattere “epico” del narrato. Al
di là della grandiosa attenzione che Hugo rivolge ai dettagli materiali, è il
saper dar di taglio alle certezze che rende eterna l’opera.
La dottrina della Natura
Opera politica? Il Novantatré
gioca la dottrina della natura. Osservando il comportamento della madre, altra
figura chiave del libro, veniamo inondati da un bagliore. Nel cercare i
suoi figli, ella distrugge persino l’ordine della notte e del giorno. Non
esistono limiti e il sentimento ci pare essere l’unica arma. Questo è il vero
mostro: il grido, la pulsione, l’energia del legame. La madre è un simbolo
che racchiude nel suo grembo un inno alla completa universalità.
L'innocenza dei guerrieri
Ma Hugo tocca l’apice
dell’eroismo nei tre fanciulli. Questi bambini, tenuti prigionieri dallo stesso
Lantegnac, rappresentano il vero moto rivoluzionario. Saranno loro a
distruggere il libro delle gesta di San Bartolomeo. Dilanieranno le carni dei
santi e lo faranno con la prontezza dei guerrieri. Quale dogma o quale
pregiudizio puoi imporre ad un cuore libero? La pura libertà delle creature, il
sorriso che si tinge di impeto.
Ridurre la storia, la leggenda, la scienza, i miracoli veri o falsi, il latino della chiesa, le superstizioni, i fanatismi, i misteri, ridurre in pezzi tutto ciò; lacerare tutta la religione, dall’alto in basso, è lavoro per tre giganti e anche per tre bambini.[2]
Tornando al
discorso d’apertura, queste righe dimostrano che la storia, una volta distrutta
e ricostruita secondo la legge dell’immaginifico, può ancora addurre un
insegnamento. Non stiamo parlando di morale, Dio me ne scampi, ma di un
istinto, quasi l’anima umana fosse portata al bene. Almeno all'alba del suo
ciclo.
Grazie, Victor Hugo
«L’utopia deve accettare il giogo della realtà, deve essere inquadrata nei fatti. Ogni idea astratta deve trasformarsi in un’idea concreta; ciò che ogni idea perde in bellezza, lo acquista in utilità; viene rimpicciolita, ma è più efficace. Bisogna soprattutto che il diritto si faccia legge e quando il diritto è divenuto legge si palesa assoluto. Per me, questo è ciò che io definisco il possibile.»«Il possibile è molto più vasto.»«Eccoti ancora una volta nell’utopia.»«Il possibile è una creatura alata che volteggia eternamente su di noi.»«Bisogna catturarla.»«Sì, ma viva.»[3]
Silvia Tortiglione
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