Il coraggio è una linea assoluta dello spirito umano. Non esiste creatura priva di sguardo e lo sguardo va alzato verso il cielo, oltre l'ingiuria - sia questa di matrice universale o individuale. Allo stesso modo, il nostro corpo è dotato di arti in grado d'aggrapparsi tanto ad una speranza, quanto ad un elemento loro simile. Prendimi la mano e corriamo vita dalla prigione, Porfirio. Estrema prova di Giacomo Leopardi nelle Operette Morali.
Le Operette Morali
Credo che le Operette Morali debbano essere incluse nell'Olimpo della nostra letteratura. Spesso presentare come una pedante raccolta di nozioni filosofiche, le Operette conservano, invece, un complesso labirinto di cultura e sentimento; coppia di termini che ogni giovane studente dovrebbe portare in cuore.
Non parlerò della struttura dell'opera, molti manuali scolastici e grandi antologie riuscirebbero nell'intento meglio di me. La trattazione verterà sul dialogo tra Plotino e Porfirio. Come si potrebbe intuire già dal titolo, siamo dinanzi a due personaggi dell'antichità: il filosofo dell'uno, Plotino e un suo allievo fidato, Porfirio. Quest'ultimo ha preso coscienza della vanità di ogni sentire; persino il dolore è vanificato dalla noia, questa sorella ignota di Thanatos. Il maestro vuole indagare le motivazioni che spingono il buon allievo alla fine. Nel corso del dialogo, emergono certe punte fondamentali:
Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio della morte; essa non ci ha dato meno odio dell'infelicità, e amore del nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni atto, e di ogni nostro amore e odio; e che non si fugge alla morte, né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio (...) Come dunque può essere contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel solo modo che hanno gli uomini di fuggirla?
Il Werther
Leopardi sottolinea il rapporto tra la serenità e il volo dai mali terreni. Allo stesso modo, un suo illustre precedente aveva difeso tale posizione, portando l'atto stesso del suicidio ad una dimensione quali politica.Stiamo parlando di Johann Wolfgang von Goethe e del suo più che noto Werther:
Ecco le tue solite fantasie - disse Alberto - tu esageri tutto, e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione, con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa.(...)Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se, infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? E uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se lo sforzo costituisce la forza, perché lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?
Dalla felicità allo sforzo. Goethe è maestro dello slancio, tanto nel Werther quanto nel Meister o nel Faust. E il sentimento, questo slancio completo altro non può sottolineare che una piena libertà di agire. Il vento che spinge un popolo alla ribellione resta uguale anche nella singola esperienza. Se il tormento mi porta ad accettare una vita senza ardore vale la pena morire. Non a caso, questo considerare la morte come puro eroismo è una costante non solo letteraria e mitologica, ma anche storica.
Unico Tempo e unica Nazione
Torniamo dunque ad una questione tanto cara: dove comincia il limite di una letteratura? Da quale punto possiamo definire il confine della letteratura italiana, della letteratura tedesca? E ancora, quale indizio ci suggerisce di chiudere il tempo, di affermare con certezza da eruditi: questo pensiero appartiene al secolo XVIII e questo al XIX? Basti pensare che il tema della "morte volontaria" (ammettiamo senza riserve che il termine suicidio lascia basiti, forse a causa di una mancata elaborazione culturale dell'epilogo; forse a causa di un continuo elogio della vita, elogio necessario) la morte volontaria, dunque, è un motivo ricorrente sin dall'epoca greca. Si getta nella pozza l'ultimo petalo in nome di una donna, di una condanna politica, di una sconfitta, del dolore creativo - caso, ad esempio, di Francesco Borromini, artista di cui parlerò in altro momento. Quelle elencate sono costanti della menta umana, uniche costanti da Pericle ai nostri giorni.
Viviamo, Porfirio mio!
Si badi, questo articolo non è assolutamente una lode della morte volontaria, né tanto meno una difesa sconsiderata del taglio. Mia intenzione è dare rilievo, ancora una volta, alla libertà, unica arbitra non solo del sereno vivere, ma anche dell'agire delle nazioni. Se sono libero di poter morire, sono anche libero di poter creare. Al sommo Leopardi la chiusa:
Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.
Silvia Tortiglione
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