venerdì 29 maggio 2015

Leopardi e Goethe: la morte volontaria

Il coraggio è una linea assoluta dello spirito umano. Non esiste creatura priva di sguardo e lo sguardo va alzato verso il cielo, oltre l'ingiuria - sia questa di matrice universale o individuale. Allo stesso modo, il nostro corpo è dotato di arti in grado d'aggrapparsi tanto ad una speranza, quanto ad un elemento loro simile. Prendimi la mano e corriamo vita dalla prigione, Porfirio. Estrema prova di Giacomo Leopardi nelle Operette Morali.



Le Operette Morali

Credo che le Operette Morali debbano essere incluse nell'Olimpo della nostra letteratura. Spesso presentare come una pedante raccolta di nozioni filosofiche, le Operette conservano, invece, un complesso labirinto di cultura e sentimento; coppia di termini che ogni giovane studente dovrebbe portare in cuore. 



Non parlerò della struttura dell'opera, molti manuali scolastici e grandi antologie riuscirebbero nell'intento meglio di me. La trattazione verterà sul dialogo tra Plotino e Porfirio. Come si potrebbe intuire già dal titolo, siamo dinanzi a due personaggi dell'antichità: il filosofo dell'uno, Plotino e un suo allievo fidato, Porfirio. Quest'ultimo ha preso coscienza della vanità di ogni sentire; persino il dolore è vanificato dalla noia, questa sorella ignota di Thanatos. Il maestro vuole indagare le motivazioni che spingono il buon allievo alla fine. Nel corso del dialogo, emergono certe punte fondamentali: 

Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio della morte; essa non ci ha dato meno odio dell'infelicità, e amore del nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni atto, e di ogni nostro amore e odio; e che non si fugge alla morte, né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio (...) Come dunque può essere contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel solo modo che hanno gli uomini di fuggirla? 


Il Werther

Leopardi sottolinea il rapporto tra la serenità e il volo dai mali terreni. Allo stesso modo, un suo illustre precedente aveva difeso tale posizione, portando l'atto stesso del suicidio ad una dimensione quali politica.Stiamo parlando di Johann Wolfgang von Goethe e del suo più che noto Werther
Ecco le tue solite fantasie - disse Alberto - tu esageri tutto, e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione, con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa. 
(...)
Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se, infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? E uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se lo sforzo costituisce la forza, perché lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?


Dalla felicità allo sforzo. Goethe è maestro dello slancio, tanto nel Werther quanto nel Meister o nel Faust. E il sentimento, questo slancio completo altro non può sottolineare che una piena libertà di agire. Il vento che spinge un popolo alla ribellione resta uguale anche nella singola esperienza. Se il tormento mi porta ad accettare una vita senza ardore vale la pena morire. Non a caso, questo considerare la morte come puro eroismo è una costante non solo letteraria e mitologica, ma anche storica. 

Unico Tempo e unica Nazione


 Torniamo dunque ad una questione tanto cara: dove comincia il limite di una letteratura? Da quale punto possiamo definire il confine della letteratura italiana, della letteratura tedesca? E ancora, quale indizio ci suggerisce di chiudere il tempo, di affermare con certezza da eruditi: questo pensiero appartiene al secolo XVIII e questo al XIX? Basti pensare che il tema della "morte volontaria" (ammettiamo senza riserve che il termine suicidio lascia basiti, forse a causa di una mancata elaborazione culturale dell'epilogo; forse a causa di un continuo elogio della vita, elogio necessario) la morte volontaria, dunque, è un motivo ricorrente sin dall'epoca greca. Si getta nella pozza l'ultimo petalo in nome di una donna, di una condanna politica, di una sconfitta, del dolore creativo - caso, ad esempio, di Francesco Borromini, artista di cui parlerò in altro momento. Quelle elencate sono costanti della menta umana, uniche costanti da Pericle ai nostri giorni. 

Viviamo, Porfirio mio!

Si badi, questo articolo non è assolutamente una lode della morte volontaria, né tanto meno una difesa sconsiderata del taglio. Mia intenzione è dare rilievo, ancora una volta, alla libertà, unica arbitra non solo del sereno vivere, ma anche dell'agire delle nazioni. Se sono libero di poter morire, sono anche libero di poter creare. Al sommo Leopardi la chiusa: 
Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. 


Silvia Tortiglione 

mercoledì 27 maggio 2015

Sound Horizon, quando la musica diventa poesia

Credo sia giusto dare spazio ai cosiddetti “anonimi musicali”, coloro che, per ragioni di facile ascolto, di chiusura spirituale e di ingiusto pregiudizio, vengono spesso rilegati ad un pubblico di nicchia. Questo è il caso della band  nipponica – o per meglio dire, del complesso – dei Sanhora, conosciuti come Sound Horizon.

Revo

Sound Horizon: il nipponico utile dulci miscere


Non bisogna lasciarsi ingannare dal piglio giocoso e dalla grafica d’animazione. I Sound Horizon esprimono il puro concetto di universalità; la loro esperienza artistica evoca il ciliegio dell’est, senza rinunciare al vento d'occidente, per dirla con Shelley. Revo, demiurgo di questa poetica orchestra, è in grado di cucire sul nostro presente l’oraziano utile dulci miscere e compie questo sforzo nel modo migliore: adattando, cioè, il mito e la fiaba al concetto e all’esistenza.

Siamo nomadi – mulini a vento –
che dondolano tra i ricordi
Qualsiasi orizzonte ci capiterà d’incontrare
daremo vita ad una canzone. 

Questo taglio appartiene al quinto album: Roman. E come ignorare un certo richiamo agli antichi “roman”? Quei grandiosi cicli di storie e di eroi che presero il via alla fine del XI secolo. Questo il nocciolo della questione e della grandezza dei Sanhora. Dando vita al sogno, eludiamo i confini della nazione; siamo beati nel sentimento e chiniamo la fronte al pianto di una storia. Revo dovrebbe essere preso d’esempio non solo da aspiranti musicisti, ma anche dai romanzieri; perché, si sa, ormai la creazione viene ridotta all’osso, si produce una singolare individualità, il rapporto (santo rapporto) tra autore e personaggio viene relegato ad un’utile dimensione.

5th Story Album; Roman

Il vivere dell'inanimato


Nel Sound Horizon Kingdom, le corde vocali vibrano di luce; una scintilla ora fiume, ora rubino e ora bosco. Questo lampo di vita ci tiene fermi all’ascolto. Anche un passante, notando il muovere degli interpreti e la precisione dei versi, sarebbe in grado di cogliere il battito. La struttura che regge ogni concept album si traduce nel semplice fiore del mondo: l’amore. Ma non esiste fuoco che s’accenda in solitudine. Sono le vene di Revo, che tremano nel vivificare un personaggio, a creare tale uragano di sentire. 


Da un lato, i suoi guerrieri paiono sezionati nel ventre, tanto profondo e umano il loro impulso; dall'altro lato, essi ci ricordano che la nostra mente vola gloriosa nell'impossibile, lo tocca e ne trae il dono supremo: la fantasia. Sono donne e fanciulli di terra e di aria. 


Abolizione dei confini


Passiamo dal crudo Elisio al lauro di Francia; dal mito d’Omero alle favole tedesche. Il padre e la morte mutano nei santi e negli eroi. Con il medesimo impeto, si fugge dal tono metal all'elegia; dalla ballata allo sfumare di un coro. Annullare i giudizi di patria è beato compito della Musica. Chiudo questa breve trattazione con un messaggio quanto mai veritiero, una preghiera da recitare al sonno:

Ciò di cui ho bisogno non è il rimpianto dei giorni passati
-  è un amore che protegga persino le illusioni. 



Silvia Tortiglione

Testi: 
Asa to Yuro no Roman; 5th story album Roman
Teshi no Chouzou; 5th story album Roman

Per le traduzioni si ringrazia: 

Giucchin

lunedì 25 maggio 2015

Il Novantatré e il Victor Hugo dell'ideale

Tendiamo a classificare la storia come un semplice involucro di eventi; ne tastiamo a fondo le dinamiche, osserviamo il muoversi centrifugo delle azioni. Ma dalla storia, come da qualsiasi altra espressione umana, è possibile trarre un insegnamento o, addirittura, uno slancio in potenza. E dico in potenza, giacché un atto di sangue nasconde futuri moti di spirito, questo nostro spirito che cede all'arte e dall'arte coglie il brivido. 


 La Vandea

Ultimo romanzo di Victor Hugo, il Novantatré conclude in maniera quantomai eroica l'esperienza dell'autore. Siamo in un anno decisivo, ormai la nuova Repubblica di Robespierre si è imposta oltre l'antica monarchia. Non manca, allo stesso tempo, un movimento - se così è lecito definirlo - in perfetto antagonismo con gli ideali del 1789. Terra del conflitto è la Vandea, luogo in cui s'annida il germe delle superstiti aristocrazie e obiettivo ultimo dei repubblicani.


 Tellmarch e i nuovi rivoluzionari

Mai come in questo romanzo, Hugo ci pare statuario. Egli è un monumento all'oggettività, ma, si badi, non un monumento fermo dinanzi al galoppo delle armate; il suo sguardo di pietra si scioglie al pianto dei deboli e s'infuria nella placida rivoluzione interiore degli emarginati. 
Prendiamo, ad esempio, la parte riservata al medicante Tellmarch:

«Capitemi bene; come raccapezzarci? Si va, si viene, i fatti si susseguono e io sono là, sotto la protezione delle stelle»
(…)
«Io sono un praticone, mi intendo di medicina, conosco le erbe, so utilizzare le piante medicinali e i contadini mi vedono osservare quello che per loro non conta, mi ritengono uno stregone. Io fantastico ed essi mi credono sapiente.»[1]

Il dialogo tenuto dal vagabondo è svolto con il marchese di Lantegnac, feroce monarchico. Ora, il personaggio di Tellmarch è quanto giudico l’apoteosi dell’utopia, una direzione politica quasi anarchica e, in virtù di tale innocenza, sublime. Sono incisi di questo tipo a determinare il carattere “epico” del narrato. Al di là della grandiosa attenzione che Hugo rivolge ai dettagli materiali, è il saper dar di taglio alle certezze che rende eterna l’opera.

La dottrina della Natura



Opera politica? Il Novantatré gioca la dottrina della natura. Osservando il comportamento della madre, altra figura chiave del libro, veniamo inondati da un bagliore. Nel cercare i suoi figli, ella distrugge persino l’ordine della notte e del giorno. Non esistono limiti e il sentimento ci pare essere l’unica arma. Questo è il vero mostro: il grido, la pulsione, l’energia del legame. La madre è un simbolo che racchiude nel suo grembo un inno alla completa universalità.

L'innocenza dei guerrieri

Ma Hugo tocca l’apice dell’eroismo nei tre fanciulli. Questi bambini, tenuti prigionieri dallo stesso Lantegnac, rappresentano il vero moto rivoluzionario. Saranno loro a distruggere il libro delle gesta di San Bartolomeo. Dilanieranno le carni dei santi e lo faranno con la prontezza dei guerrieri. Quale dogma o quale pregiudizio puoi imporre ad un cuore libero? La pura libertà delle creature, il sorriso che si tinge di impeto.

Ridurre la storia, la leggenda, la scienza, i miracoli veri o falsi, il latino della chiesa, le superstizioni, i fanatismi, i misteri, ridurre in pezzi tutto ciò; lacerare tutta la religione, dall’alto in basso, è lavoro per tre giganti e anche per tre bambini.[2]



Tornando al discorso d’apertura, queste righe dimostrano che la storia, una volta distrutta e ricostruita secondo la legge dell’immaginifico, può ancora addurre un insegnamento. Non stiamo parlando di morale, Dio me ne scampi, ma di un istinto, quasi l’anima umana fosse portata al bene. Almeno all'alba del suo ciclo.

Grazie, Victor Hugo

 Vorrei chiudere questa trattazione con un estratto che, a mio dire, non necessita di essere commentato. Sono pagine che ti portano alle lacrime senza l'amore di un corpo; pagine che tuonano nella realtà, in questo nostro fosco reale. Noi abbiamo la Grande Crisi, il romanzo ha i suoi eroi.

«L’utopia deve accettare il giogo della realtà, deve essere inquadrata nei fatti. Ogni idea astratta deve trasformarsi in un’idea concreta; ciò che ogni idea perde in bellezza, lo acquista in utilità; viene rimpicciolita, ma è più efficace. Bisogna soprattutto che il diritto si faccia legge e quando il diritto è divenuto legge si palesa assoluto. Per me, questo è ciò che io definisco il possibile.»
«Il possibile è molto più vasto.»
«Eccoti ancora una volta nell’utopia.»
«Il possibile è una creatura alata che volteggia eternamente su di noi.»
«Bisogna catturarla.»
«Sì, ma viva.»[3]



Silvia Tortiglione






[1] Victor Hugo; Il Novantatré ( Il Caimand) trad. di Oete Blatto
[2]  Victor Hugo; Il Novantatré (La carneficina di San Bartolomeo) trad. di Oete Blatto
 [3] Victor Hugo; Il Novantatré (Il Carcere) trad. di Oete Blatto

domenica 24 maggio 2015

Introduzione

Questo blog nasce da un momento di ozio e avvilimento; ozio, dovuto al solito andirivieni quotidiano; avvilimento, sintomo, invece, di una completa esasperazione. A cosa? Al chiudersi delle piattaforme culturali: una chiusura fisica e una chiusura di anima. 
La linea principale di questo spazio sarà l'arte, un'entità poliedrica che balzi ora sulle note di un piano, ora tra le colonne di un edificio, ora sulle pagine di un libro e ora sulla tela di un quadro. Non esiste una piramide di gloria, soltanto un diverso modo di esprimere lo slancio del petto. E dunque, addio ai confini della nazione e della lingua, addio alla prepotenza delle mode. 
Spero qualcuno possa cavare beneficio dai futuri articoli. 
Nel nome di una fantasia universale, 

Silvia Tortiglione